L'arte e la medicina hanno avuto un passato comune e hanno un presente separato: la medicina è materia scientifica e precisa, l'arte è espressione individuale e umanistica. Eppure in un passato remoto hanno avuto definizioni simili. La medicina intesa come arte dell'individuo, ovvero l'arte del preservare lo stato di salute del corpo tutt'uno con l'anima e il pensiero. E così nasce l'analisi della malattia come espressione di malessere del corpo. Ecco dunque la mia ipotesi.
Può sembrare paradossale ma ogni malattia conferisce un nuovo senso alla vita. Come conciliare allora tale assunto con le sindromi autoimmuni, croniche per definizione... Che senso può dare all'esistenza una patologia progressiva? Se l'obiettivo insito nella natura umana è il conseguimento e mantenimento della salute, qual'è il razionale di un'affezione che non ci restituirà più il benessere? Che aspettativa di vita potremmo nutrire? Dovremmo accettarla o combattere?
Posta in questi termini, per quanto umanamente comprensibile, la questione è di per sé concettualmente fuorviante ed è il risultato ineludibile di un'ottica che paga un forte tributo all'informazione scientifica illuminista, orgogliosamente e ingenuamente ancorata ad una supremazia sulla natura di stampo positivista. Da quando la medicina si è connotata come scienza ha perduto il privilegio di arte del curare e del guarire, riducendosi a mera applicazione tecnologica. Ha obliato i criteri greci di praxis e techné, smarrendo il significato originale della propria essenza. Vive dell'entusiasmo effimero legato alla ricerca, dimentica che ogni scoperta ha in sé un "a priori" e che il coronamento di ogni sforzo in quella direzione può condurla al massimo ad una riscoperta.
L'antropocentrismo di tale posizione condiziona non poco l'opzione terapeutica: l'imperativo categorico è aggredire la malattia, sconfiggere il patogeno ad ogni costo. E' appena il caso di accennare al limite intrinseco di questa scelta: chi e che cosa legittima l'aggressione verso ciò che non si è intimamente compreso? Può la biologia fornirci il substrato culturale per afferrare il significato della malattia o di ciò che rappresenta l'essere malato, la cifra della sofferenza? Occorre a questo punto operare un distinguo: capire e comprendere sono veri sinonimi o si tratta piuttosto di termini fra loro sostanziali? Credo che capire, nel senso di intelligere, si riveli riduttivo rispetto al comprendere nel senso di "prendere con"... Ecco perché è sempre maggiore lo sconforto del ricercatore di fronte all'insuccesso; lo sforzo volitivo non basta se è negletta la sapienza, la phronesis aristotelica. Fino a quando mente-corpo-spirito resteranno un vago ricordo romantico, il malato rimarrà una sorta di " oggetto guasto" da delegare a valenti esperti senz'anima, nel senso della psyché socratica, privi di areté.
Allora chi meglio della malattia autoimmune, espressione di auto aggressione, può indurci obtorto collo a recuperare il perduto senso dell'unità, quel reale e sincretico senso di appartenenza che la società tecnologico industriale ha così meticolosamente saputo dicotomiizzare. Pare che la nuova frontiera scientifica risieda nella genetica immunologica, scoperta delle scoperte, che tutto ipotizza e nulla giustifica. Se così è siamo in nuce malati, una sorta di predisposizione che suona come predestinazione: forse una moderna versione del peccato originale? E suggestivo ripensare ad una medicina religiosa, dove re-ligio sta per ri-legare, riconnettere. Forse la malattia, con la sua ineluttabilità, indurrà una ri-flessione e condurrà ad una re-visione dell'attuale paradigma scientifico?
Qualcuno certamente obietterà che si tratta di ripescare teorie di kuhniana memoria, ma non è chi non veda che la sua rivoluzione epistemologica ha impresso una valenza meramente propedeutica contenente, magari in maniera inattesa, il seme per un proficuo ritorno alle origini, alla riconciliazione dell'uomo quale unità integrata, ove si elidano finalmente i confini fra self e non-self. Così l'accettazione dell'altro da sé come premessa razionale, costituirà il repere elettivo per l'esser-ci nel mondo, quel da-sein che neppure Heidegger è riuscito a rendere del tutto efficacemente. Non dimentichiamo che egli, pur con i propri conflitti, ha speso la vita alla ricerca di Dio... magari proprio quel taumaturgo platonico che sussumeva l'Uno-Bene.
Resta il fatto che per guarire si va dal medico e non dal filosofo. Tuttavia un tempo l' ars curandi prevedeva entrambe le prerogative, giacché la thérapeia era ancella della sophia. Proviamo allora ad "animare" i farmaci, metamorfosandone il significato simbolico da combattenti a coadiutori, da armi intelligenti a forze comprensive... da Aries ad Eros. Forse, come direbbe Hillman, quando gli Dei si saranno riappropriati della loro veste simbolica, potranno rivelarsi realmente utili.
Il tutto però non senza una buona dose di autophilia, premessa all'eudaimonia.
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